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30 gennaio 2011

Chi è l'eversore? Chi è il disturbato mentale?


L'intervento di Pasquale Profiti, presidente dell'Associazione nazionale dei magistrati del Trentino Alto Adige all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2011

Sono un magistrato italiano ed oggi rappresento molti altri magistrati, come me. A nome mio ed a nome loro, oggi, finalmente, confessiamo.
Confessiamo di essere effettivamente degli eversori, come qualcuno ritiene. Applichiamo, infatti, le regole della nostra Costituzione e delle nostre leggi con la stessa imparzialità ed impegno agli immigrati clandestini ed ai potenti, agli emarginati ed a coloro che gestiscono le leve della finanza, della politica, dell’informazione. E’ vero, siamo degli eversori perché, insieme a CALAMANDREI, riteniamo la Costituzione e la Corte Costituzionale una “garanzia con cui il singolo è messo in grado di difendere il suo diritto contro gli attentati dello stesso legislatore o del governo”. Questo, oggi, vuol dire essere eversori.
Confessiamo di essere veramente, come è stato sostenuto, disturbati mentali, perché solo chi è tale continua a credere nel servizio giustizia, quando non sai se il giorno dopo ci sarà qualcuno che presterà assistenza al tuo computer, quando vedi che gli indispensabili collaboratori che vanno in pensione non sono  sostituiti, quando per poter lavorare condividi stanze anguste con colleghi o assistenti, quando in ferie scrivi sentenze o prepari provvedimenti, quando, nonostante ciò, sei accusato di protagonismo e di perder tempo in conferenze o convegni.
Confessiamo di non poter sempre soddisfare l’opinione pubblica se la Costituzione e le leggi ce lo vietano,  perché assolviamo chi riteniamo innocente anche se ciò non porta consensi,  condanniamo chi riteniamo colpevole sulla base della rigorosa valutazione delle prove anche quando i sondaggi, veri o falsi che siano, non ci confortano, e valutiamo la responsabilità dei singoli anche quando chi governa  vorrebbe una risposta dura, anche a scapito del singolo, a fenomeni di violenza collettiva.
Confessiamo, è vero, di sovvertire il voto degli italiani perché avendo giurato sulla Costituzione Repubblicana,  riteniamo, con Einaudi, che quella Costituzione imponga  ai magistrati di utilizzare i freni che “hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti, scelti dalla maggioranza degli elettori. Quei freni che “tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome”, quei freni che impongono la disapplicazione delle leggi in contrasto con le norme europee o l’incostituzionalità quando violano norme di diritto internazionale.
Confessiamo di essere politicizzati e non vogliamo essere apolitici come dichiaravano di esserlo la maggioranza dei magistrati fascisti o i magistrati iscritti alla P2 o i magistrati che per avere qualche posto direttivo o semidirettivo si appoggiano a potenti o faccendieri di turno, frequentano salotti buoni, fanno la telefonata agli amici o utilizzano il loro ruolo per avere sconti, gadget, ingressi o servizi gratuiti. Siamo politicizzati e vogliamo esserlo perché applichiamo la legge con il giusto rigore anche a chi governa, a chi potrebbe favorirci, consapevoli che saremmo apolitici solo se non disturbassimo le classi dirigenti, le élite al potere che vogliono essere al di sopra delle regole.
Confessiamo anche di fare proselitismo della nostra eversione, raccontando in Italia ed all’estero le ragioni della nostra autonomia e della nostra indipendenza, i motivi per cui riteniamo che nel nostro paese, oggi più di ieri, quell’assetto costituzionale della magistratura sia essenziale per evitare che gli interessi di parte prevalgano sempre e comunque sugli interessi della collettività, perché l’Italia non possa permettersi un diverso assetto della magistratura quando tra i suoi rappresentanti in Parlamento o negli enti locali siedono condannati per reati gravissimi e la giustizia sia terreno di aggressioni inimmaginabili per gli altri paesi democratici.
Confessiamo, una volta per tutte, di essere toghe rosse; siamo rossi, rubando ancora una volta le parole a Piero CALAMANDREI, “perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria”; siamo rossi anche se non sappiamo cosa ciò esattamente significhi, perché per noi il rosso è principalmente il sangue dei colleghi uccisi per il loro lavoro.
Confessiamo anche di avere dei correi, il personale amministrativo senza il quale non potremmo commettere da soli le nostro colpe; molti di loro condividono la nostra eversione ed i nostri disturbi mentali se è vero che accettano di svolgere lavori superiori alle loro mansioni ed al loro stipendio, condividono le nostre stesse stanze anguste, le nostre incertezze sul futuro dei progetti organizzativi ministeriali.
Ci spiace confessare che anche numerosi appartenenti alle forze dell’ordine, incredibilmente, ritengono, come noi, che nessuno sia sopra la legge e vedendoci lavorare quotidianamente si rendono conto che l’eversione di molti di noi è uguale alla loro: rendere alla collettività il servizio per il quale siamo pagati, senza concedere che qualcuno possa stare al di sopra delle regole.
Confessiamo, infine, che per noi il 29 gennaio è la data in cui ricordiamo Emilio Alessandrini, Pubblico Ministero a Milano che oggi, 32 anni fa, veniva ucciso dagli eversori, quelli veri, quelli che al posto della nostra arma, la Costituzione, utilizzavano le pistole. Mi piacerebbe, sig. Presidente, che al termine del mio intervento non vi fossero applausi, rituali o spontanei, formali o calorosi che siano, ma il silenzio, magari in piedi, dedicato al collega ucciso dai terroristi, affinché la sua memoria ci illumini oggi e, ancor di più, da domani.

L’intervento del procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli, pronunciato ieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario

Il 12 gennaio 2002, in questa stessa aula, inaugurando anche allora l’Anno giudiziario, Maurizio Laudi – parlando a nome dell’Associazione magistrati – ebbe a dire: “Ci indigna che il capo del governo, in sede internazionale, rappresenti l’azione di alcuni uffici giudiziari come atto di persecuzione politica. Ci indigna perché queste accuse non sono vere e perché vengono ripetute come verità acquisite che non richiedono di essere provate”.
Parole coraggiose, necessarie per arginare una pericolosa deriva già allora in atto. Deriva che, peraltro, è continuata.
Come fosse ossessionato dai suoi problemi giudiziari, il presidente Berlusconi ha moltiplicato gli interventi volti ad indurre, nei più, l’immagine della giustizia come “campo di battaglia” fra interessi contrapposti, anziché luogo di tutela di diritti in base a regole prestabilite; contribuendo così alla devastazione di tale immagine.
La tecnica della ripetizione assillante che trasforma in verità anche i falsi grossolani continua a essere applicata in modo implacabile. E dopo aver proclamato la necessità di istituire una commissione parlamentare d’indagine per accertare se la magistratura opera con fini eversivi, il capo del governo ha sostenuto (in un videomessaggio trasmesso a reti unificate) che i Pm devono essere “puniti”, mentre si preannunziano manifestazioni di piazza contro i giudici “politicizzati” per il prossimo 13 febbraio.
Così la misura è colma. Non la misura della nostra pazienza (l’impopolarità dei magistrati nelle stanze del potere è fisiologica e talora necessaria per una giurisdizione indipendente: la provarono in vita anche Falcone e Borsellino...). Vicina al livello di guardia è la misura della compatibilità con le regole di convivenza istituzionale proprie di un sistema democratico .
Nessun leader democratico al mondo ha mai osato sostenere che “per fare il lavoro (di magistrati) bisogna essere malati di mente; se fanno questo lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Il presidente Berlusconi invece lo ha sostenuto.
Nessun leader democratico al mondo (ancorché inquisito) ha mai osato parlare di “complotto giudiziario” ordito ai suoi danni da magistrati indicati come “avversari politici”. Le reazioni dei personaggi pubblici inquisiti – all’estero – sono le più svariate, ma sempre contenute in un ambito di accettazione e rispetto della giurisdizione. Solo in Italia si lanciano contro la magistratura, senza prove, grottesche accuse di macchinazione o persecuzione; quando si deve leggere, piuttosto, insofferenza per il controllo di legalità e per la rigorosa applicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Nessun leader democratico al mondo coinvolto in vicende giudiziarie si è mai sognato di difendersi DAL processo anziché NEL processo. In Italia, invece, il premier ha sperimentato una strategia di contestazione del processo in sé, quasi una sorta di impropria riedizione del cosiddetto processo di rottura da altri praticato in passato.
Sotto nessun cielo democratico del mondo il potere politico ha mai operato sui giudici interventi per ottenere una certa interpretazione della legge o si è sostituito ad essi nell’interpretazione. Sarebbe un vulnus intollerabile al principio della separazione dei poteri. Solo in Italia si registrano simili strappi. Basti ricordare la mozione approvata dalla maggioranza del Senato il 5 ottobre 2001, per indicare ai giudici (testualmente) “l’esatta interpretazione della legge” dopo una pronunzia di tribunale in tema di rogatorie non gradita al Palazzo. Oppure la decisione di due giorni fa della Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, che ha stabilito quale ufficio giudiziario sia competente a procedere in una specifica indagine (ovviamente qui non si fa questione di merito, ma solo – per così dire – di titolarità della competenza a stabilire la competenza).
Invece di indulgere a un riequilibrio dei poteri a danno delle prerogative costituzionali della magistratura (quella requirente in particolare); sarebbe tempo di pensare, finalmente, a una vera riforma della giustizia, capace di migliorare l’efficienza del sistema e di ridurre i tempi dei processi.
Infine, chi parla a vanvera di “partito dei giudici”, voglia prendere atto che un “partito dei giudici” esiste davvero, ma nell’accezione dello storico Salvatore Lupo, secondo cui è “attraverso l’impegno di alcuni e (purtroppo) il martirio di altri, che l’idea del partito dei giudici prende forma. Nasce dalla sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e dello Stato, ci siano funzionari disposti a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo stato. Ad ogni funerale, ad ogni commemorazione prende forma l’idea di per sé contraddittoria dei magistrati come rivoluzionari, in quanto portatori di legalità”.
Ecco: definire “cospiratori” coloro che sono semplicemente portatori di legalità, non è solo offensivo. È soprattutto profondamente ingiusto.

Per avere un quadro della situazione politica e delle possibili vie d'uscita, leggi Quante sono le divisioni del capo dello Stato di Eugenio Scalfari

Esci, per un momento, dal maleficio leggendo anche Respirare aria pulita di Concita De Gregorio

1 commento:

  1. Io però credo di potere invece aggiungere qualcosa di realmente concreto a questo elenco, almeno fino a quando la Magistratura, civilmente, non ‘’rettificherà’ certe manifestazioni di ''mafiosità'' invece di continuare ad ostentare prepotenti ‘’muscoli’’ :
    [[Quando certa Magistratura avvantaggia delle ‘’attività politico mafiose’’]]
    http://www.adduso.altervista.org/documenti_3parte.htm

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