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10 giugno 2011

Il ritratto impietoso che The Economist dà dell'Italia e di Berlusconi nell'editoriale di oggi (Traduzione dall'inglese)

L'uomo che ha fregato un intero paese
L'era Berlusconi graverà sull'Italia per gli anni a venire

Silvio Berlusconi ha molto da sorridere. Nei suoi 74 anni, ha creato un impero mediatico che lo ha reso l'uomo più ricco d'Italia. Ha dominato la scena politica dal 1994 e ora è il primo ministro più longevo d'Italia dopo Mussolini. Egli è sopravvissuto a innumerevoli previsioni della sua imminente fine. Eppure, nonostante i suoi successi personali, è stato un disastro come leader nazionale in tre modi.

Due di loro sono ben noti. Il primo è la saga lurida dei suoi "Bunga Bunga" party del sesso, uno dei quali ha prodotto lo spettacolo poco edificante di un primo ministro messo sotto processo a Milano con l'accusa di pagare per fare sesso con una minorenne. Il processo Rubygate non ha infangato solo Berlusconi, ma anche il suo paese.

Tuttavia l'impatto del vergognoso scandalo sessuale sulle prestazioni del signor Berlusconi come uomo politico è stato limitato, per cui questo giornale lo ha in gran parte ignorato. Abbiamo, tuttavia, a lungo protestato per il suo secondo difetto: i suoi imbrogli finanziari. Nel corso degli anni, è stato accusato più di una dozzina di volte per frode, falso in bilancio e corruzione. I suoi difensori sostengono che non è mai stato condannato, ma questo è falso. Diversi casi si sono conclusi con condanne, poi annullate per procedure contorte, o andati in prescrizione, almeno due volte, perché lo stesso onorevole Berlusconi ha cambiato la legge. Ecco perché questo giornale ha affermato nell'aprile del 2001 che era inadatto a governare l'Italia.
Non abbiamo trovato alcun motivo per cambiare questo giudizio. Ma è ormai chiaro che né il sesso né la storia dodgy della dubbia attività imprenditoriale deve essere la ragione principale perché gli italiani guardino indietro su Berlusconi come un disastro. Di gran lunga peggiore è stato il terzo difetto: il suo totale disprezzo per la condizione economica del suo paese. Forse a causa della distrazione per i suoi grovigli legali, ha fallito in quasi nove anni come primo ministro non ponendo rimedio o almeno riconoscendo realmente le gravi carenze economiche dell'Italia. Come risultato, si lascerà dietro di sé un paese in difficoltà.

Una malattia cronica, non una crisi acuta
Tale conclusione cupa potrebbe sorprendere gli studiosi della crisi dell'euro. Grazie alla rigorosa politica di bilancio del ministro delle Finanze di Berlusconi, Giulio Tremonti, l'Italia ha finora sfuggito all'ira dei mercati. L'Irlanda, non l'Italia, è la I nel PIGS (con Portogallo, Grecia e Spagna). L'Italia ha evitato una bolla immobiliare, le banche non vanno in fallimento. L'occupazione ha resistito: il tasso di disoccupazione è dell'8%, rispetto a oltre il 20% in Spagna. Il disavanzo di bilancio nel 2011 sarà al 4% del PIL, contro il 6% in Francia.

Eppure questi numeri rassicuranti sono ingannevoli. La malattia economica dell'Italia non è di tipo acuto, ma una malattia cronica che rode lentamente in vitalità. Quando le economie europee si comprimono, quella italiana si restringe di più; quando crescono, cresce di meno. Secondo il nostro rapporto speciale in tema di punti, solo in Zimbabwe e Haiti la crescita del PIL era minore che in Italia nel decennio fino al 2010. Il PIL pro capite in Italia è sceso realmente. La mancanza di crescita significa che, nonostante Tremonti, il debito pubblico è ancora al 120% del PIL, il terzo più grande del mondo industriale avanzato. Ciò è tanto più preoccupante dato il rapido invecchiamento della popolazione in Italia.

Un quarto dei giovani, molto di più in alcune zone del sud depresse, sono senza lavoro. Il tasso di partecipazione femminile nella forza lavoro è del 46%, il più basso in Europa occidentale. Un mix di bassa produttività e alti salari sta erodendo la competitività: mentre la produttività è aumentata di un quinto in America e un decimo nella Gran Bretagna nel decennio fino al 2010, in Italia è sceso del 5%. L'Italia è ottantesima nell'indice "Doing Business" della Banca Mondiale, sotto la Bielorussia e la Mongolia, e quarantottesima nella classifica della competitività del World Economic Forum, dietro l'Indonesia e Barbados.

Il governatore uscente della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha fatto di recente il punto sulla situazione economica in un incisivo discorso d'addio (prima di prendere in mano le redini della Banca centrale europea). Ha insistito sul fatto che l'economia ha disperatamente bisogno di grandi riforme strutturali. Ha individuato la produttività stagnante e attaccato le politiche del governo che "non riescono ad incoraggiare, e spesso ostacolano, lo sviluppo [in Italia]", come i ritardi nel sistema della giustizia civile, la povertà delle università, la mancanza di concorrenza nei servizi pubblici e privati, il doppio mercato del lavoro con insiders protetti e outsider esposti e le poche grandi imprese.

Tutte queste cose stanno iniziando ad influenzare la giustamente acclamata qualità della vita d'Italia. Le infrastrutture sono sempre più logore. I servizi pubblici sono lenti. L'ambiente è in sofferenza. I redditi reali sono, nel migliore dei casi, stagnanti. I giovani italiani più ambiziosi abbandonano il loro paese in massa, lasciando il potere nelle mani di un anziano e out-of Elite-touch. Pochi europei disprezzano i loro politici viziati tanto quanto fanno gli italiani.

Eppur SI Muove
Quando questo giornale ha denunciato per la prima volta Berlusconi, molti imprenditori italiani hanno risposto che solo la sua maliziosa facciatosta imprenditoriale poteva offrire qualche possibilità di modernizzare l'economia. Ora nessuno lo sostiene più. Invece essi offrono la scusa che la colpa non è sua, ma è del loro paese irriformabile.

Eppure l'idea che il cambiamento sia impossibile, non è solo disfattista, ma anche sbagliata. Nella metà degli anni '90 successivi governi italiani, preoccupati di non essere lasciati fuori dall'euro, spinsero attraverso alcune importanti riforme. Anche Berlusconi ha di tanto in tanto fatto passare alcune misure di liberalizzazione negli intervalli dello scontro con i magistrati: nel 2003 la legge Biagi sul mercato del lavoro riducendo la burocrazia e aumentando l'occupazione, e molti economisti hanno lodato in Italia la riforma delle pensioni. Avrebbe potuto fare molto di più se avesse usato il suo vasto potere e popolarità per fare qualcosa di diverso dal tutelare i propri interessi. L'imprenditoria italiana pagherà a caro prezzo per i suoi piaceri.

La crisi dell'euro sta obbligando Grecia, Portogallo e Spagna a far passare riforme straordinarie in mezzo alla protesta popolare. A breve termine, questo farà male, nel lungo periodo,  dovrebbe dare nuovo slancio alle economie periferiche. Alcune sono anche suscettibili di ridurre il loro indebitamento grazie alla ristrutturazione. Un'Italia non riformata e stagnante, con un debito pubblico fermo al oltre il 120% del PIL, potrebbe trovarsi esposta come il più grande fanalino di coda nell'euro. Il colpevole? Berlusconi, che continuerà senza dubbio a sorridere ancora.

Fonte: The Economist

Niente di nuovo sotto il sole: gli Italiani da qualche tempo sono sufficientemente informati, compresi i più refrettari alla conoscenza della verità. Fa, tuttavia, una certa impressione leggere ciò che sappiamo nella cruda essenzialità di un testo in lingua inglese. 

1 commento:

  1. Anonimo10.6.11

    agghgiacciante... non lo firmo perchè sai chi sono.

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Stai per lasciare un commento? Lo leggerò volentieri ma ti chiedo per correttezza di firmarlo. In caso contrario sarò costretto a cestinarlo.
Ti ringrazio, Victor

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