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19 maggio 2009

L'Italia opulenta scaccia il Sud del mondo

Certo, stare qui, soddosfatti tutti i bisogni primari, a dare sfogo intellettuale alle proprie inquietudini, è cosa facile e relativamente soddisfacente. A pancia piena si può parlare di democrazia, elezioni, corruzione del potere e anche di migranti.

Ma io voglio tornare ancora sul problema perchè m'indigna enormemente l'atteggiamento del profondo nord del nostro paese nei confronti dei nuovi migranti. Un nord opulento, in calo demografico, che si serve di stranieri più o meno regolari per tanti lavori non più graditi agli autoctoni; fatto per lo più di persone che hanno conosciuto in faccia l'emigrazione, che si professano cristiane, che si agitano in modo scomposto per la morte di Eluana, che ricordano con orrore la persecuzione degli ebrei da parte dei regimi nazi-fascisti e che rimangono spesso insensibili ai drammi individuali e collettivi di tanta parte delle popolazioni del sud del mondo.


In Storie migranti

Da: Io non sono un ladro di fiori, io stesso mi son fatto rosa (dal taccuino di Zaher Rezai, dicembre 2008)
Quando il suo corpo è stato ritrovato, a Mestre, in via Orlanda, il 10 dicembre 2008, il documento che portava in tasca ha permesso la sua identificazione: Zaher Rezai, cittadino afghano, 13 anni. Sulla dinamica della morte non c’erano molti dubbi: per eludere i controlli portuali doveva essersi legato sotto il tir che l’aveva schiacciato a quell’incrocio, a 8 chilometri dal porto di Venezia, ormai superato.
Da: Un giorno Cacciari mi ha chiesto (di Hamed Mohamad Karim, dicembre 2008)
Signor Sindaco, un giorno lei mi ha chiesto com’è adesso la situazione in Afghanistan. Lì così su due piedi non ho trovato una risposta adatta. Non volevo ripetere sempre le stesse cose, perché la situazione oggi in Afghanistan è molto di più che una guerra, un migliaio di ONG e qualche foto di talebani e forze alleate. Ma come si fa a spiegare le mille cose che mi passano per la testa: la mia gente, gli occhi pieni di speranza, le promesse e i continui paradossi a cui non so dare risposta. Mi sono vergognato e ho solo sorriso abbassando gli occhi. Solo oggi, parlando al telefono col padre di Zaher, ho sentito il dovere di rispondere a quella domanda rimasta in sospeso.
"Signor Sindaco, la situazione oggi in Afghanistan è un ragazzo di 13 anni morto sotto un camion a Venezia per eludere il controllo di chi avrebbe dovuto offrigli asilo". Ecco cosa avrei dovuto rispondere.

Castel Volturno
"Un regolamento di conti", così, subito dopo i fatti, veniva liquidata un po’ da tutti la strage di Castelvolturno. Giovedì 18 settembre 2008, un commando camorrista fa irruzione nei locali della "Ob Ob exotic fashions", una sartoria della zona, spara 130 pallottole con mitra e pistole e lascia a terra sette uomini, tutti di origine africana. Sei i morti, mentre uno di loro riesce a sopravvivere fingendosi morto. Già, un regolamento di conti, del clan dei casalesi contro i migranti dalla pelle scura, originari del Togo, della Liberia, del Ghana, lavoratori che con il traffico di droga e la camorra nulla avevano a che fare. Un’azione di puro razzismo, dunque, che "regola i conti" con lo stato e forse con le altre mafie per ribadire una supremazia sul territorio sparando nel mucchio dei migranti perché tale supremazia tocca anche il loro lavoro, spesso in nero.

Da: Siamo i genitori di Abba, ammazzato nel settembre dello scorso anno (Italia, maggio 2009)
"Signor giudice, siamo i genitori di Abba, ammazzato nel settembre dello scorso anno". Inizia così la lettera che i genitori di Abba hanno scritto al giudice prima dell’udienza del processo ai suoi assassini, Fuasto e Daniele Cristofoli, tenutasi a Milano il 14 maggio 2009. Nessun perdono e nessun risarcimento diretto. In un’Italia dove si crede di poter ammazzare per un pacchetto di biscotti, urlando "sporco negro", salvo poi chiedere scusa con la solita storiella cattolica del perdono e pensando che qualche laico euro possa contribuire a cancellare le proprie responsabilità, le loro parole diventano il richiamo a una dignità ormai sconosciuta.
La prossima udienza del processo è fissata per il 16 luglio.
Signor Giudice,
siamo i genitori di Abba, ammazzato nel settembre dello scorso anno. Alla scorsa udienza abbiamo sentito dire dai suoi assassini, per bocca del loro avvocato, che chiedono perdono. Lei potrà immaginare quale è il nostro dolore per la morte di nostro figlio, non è concepibile che un padre, una madre, seppelliscano il proprio figlio; noi non crediamo di poter perdonare nessuno, crediamo che ci sia qualcuno di superiore a noi che potrà dire se sono veramente pentiti, se la loro richiesta di perdono sia sincera.
Abbiamo anche sentito di soldi offerti quale risarcimento dei danni. Nessuna somma vale la morte di nostro figlio, noi vogliamo che sia lei signor giudice a stabilire quale sia la pena giusta e quale sia il giusto risarcimento. Fino a quando non ci sarà una sua decisione noi non accetteremo nessuna somma, non possiamo accettarla prima.
Abbiamo fiducia che lei saprà decidere per il meglio, niente e nessuno ci potrà restituire nostro figlio, vogliamo però che gli assassini di Abba paghino per aver distrutto la vita di un giovane ragazzo e anche la nostra.
i genitori di Abba

da: Ponte Galeria: in sciopero della fame per Mabruka Mimuni (maggio 2009)
Era al centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma, dal 24 aprile, in Italia da molti anni, e avrebbe dovuto essere espulsa nella mattinata di ieri. Durante la notte, però, Mabruka Mimuni ha deciso di suicidarsi e l’ha fatto in uno dei bagni del centro impiccandosi con un maglione. Il suo corpo è stato ritrovato dalla sua compagna di cella, alle sei del mattino.
Ora, come racconta la sua compagna nell’intervista, tutte le detenute sono in sciopero della fame e anche il settore degli uomini le ha seguite nella protesta.
(8 maggio 2009)

da: Donne nelle prigioni libiche, Lampedusa (Italia), agosto 2007 (interviste raccolte da Sara Prestianni)
Saberen, Eritrea: "Siamo stati arrestati quando la nostra barca aveva lasciato le coste libiche da circa un’ora. La polizia ci ha intercettato, ci ha riportato a riva e là ha cominciato a picchiarci. Le violenze sono continuate anche nella prigione in cui siamo stati portati: Djuazat. Sono rimasta lì per 1 mese e mezzo. Una volta stavo cercando di difendere mio fratello dai colpi di manganello e hanno picchiato anche me, sfregiandomi il viso. Una delle pratiche utilizzate in questa prigione era quella delle manganellate sulla palma del piede, punto particolarmente sensibile al dolore. Per uscire ho dovuto pagare 500 dollari, in più prima di uscire mi hanno rubato i gioielli e gli ultimi soldi che mi restavano."
Selam, Etiopia: "Ho vissuto due anni in Libia. Sono stata arrestata 3 volte dalla polizia, la prima volta quando stavo traversando il deserto, alla frontiera tra Sudan e Libia, due volte quando stavo in casa. Sono stata detenuta un mese nella prigione di Kufra. Dormivo in camerate con altre 50/60 persone, donne e uomini, sul suolo. Ci davano solo dell’acqua salmastra e del pane. Ho assistito alla stupro di una donna. Spesso sono in quattro cinque poliziotti che violentano una sola donna. Molte rimangono incinta. Una volta che escono di prigione non resta loro che affidarsi a coloro che praticano l’aborto clandestino, a volte utilizzano la tecnica dell’ago, in cambio di 200-300 dollari. Molte donne sono morte in seguito agli aborti."
Araya, Etiopia: "Ho vissuto due anni in Libia, sono stata arrestata tre volte. Sono stata detenuta in una prigione vicino a Tripoli. Durante la detenzione ho subito una violenza sessuale da parte dei poliziotti. Erano in più di due. Quasi tutte le donne che sono detenute nelle prigioni libiche subiscono delle violenze sessuali da parte della polizia, forse le uniche che sono risparmiate sono le donne con dei figli molto piccoli."
Wendummo, Eritrea: "Ho vissuto tre anni in Libia. Sono stata arrestata in tutto 5 volte: 1 volta durante il viaggio, nel deserto, due volte quando mi trovavo in casa, una volta quando ero sulla costa aspettando la barca e una volta dopo 10 ore di viaggio in mare, siamo stati intercettati e riportati sulla costa. Ad ogni arresto seguivano uno o due mesi di prigione. Sono stata nella prigione di Kufra e Misratah. A Misratah eravamo 80 donne e 60 uomini nello stesso stanzone, dormendo al suolo. Ho visto più volte mio marito farsi picchiare dalla polizia, ma non potevo fare niente, perché se no avrebbero fatto anche a me quello che stavano facendo a lui. Nel viaggio che mi ha portato a Lampedusa ero sola con mia figlia di 19 giorni, mio marito è rimasto in Libia."
Hewat, Etiopia: "Ho vissuto due anni in Libia, durante i quali ho subito tre controlli della polizia. La prima volta ero in viaggio, alla frontiera con la Libia, mi hanno arrestato e incarcerato a Kufra. La seconda volta ero in una casa dove avevano radunato tutti coloro che si dovevano imbarcare a breve. La polizia libica ha fatto una retata, sono entrati in casa. Hanno cominciato a picchiare mio marito, ho cercato di fermarli ed hanno picchiato anche me, mi hanno gettato al suolo. Ero incinta e subito dopo ho perso il mio bambino a causa dei colpi. La terza volta sono riuscita a imbarcarmi ma dopo 10 ore di viaggio la barca si è rotta, la polizia libica ci intercetta, ci riporta sulla costa e siamo tutti trasferiti nella prigione di Djuazat.


Il Nord del mondo affama i poveri, li ferma alle frontiere, all’occorrenza li prende in casa facendo pagare loro i viaggi, quando non servono li rimanda indietro o li chiude in campi di prigionia. E poi? La nostra coscienza fa qualcosa per fermare questa legge che uccide i diritti umani? Non diventiamo complici silenziosi. Dichiaramo la nostra obiezione di coscienza ad una legge che, a dispetto del nome, porterà invece insicurezza e conflitti.

Solo se pensassimo che la terra è di tutti, ma non nel senso in cui l'occidente ha per secoli sfruttato, e continua a farlo, il sud del mondo, allora capiremmo che ben altro approccio meriterebbe il tragico problema all'ordine del giorno. E si chiama integrazione, multiculturalità, accoglienza, cooperazione allo sviluppo.

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