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26 dicembre 2010

Le COINCIDENZE di Sebastano Gulisano



Un racconto natalizio per pochi amici, di un autore che voglio far conoscere ad altri amici. Spero che non se l'abbia a male. Grazie Seba!

"Com’è andata venerdi?" Me l’ha chiesto più d’uno, magari scusandosi di non potere (prima) o di non avere potuto (dopo) esserci, ché la bambina malata, un impegno improvviso, la neve, il ghiaccio, il freddo, la pioggia a dirotto, il traffico impazzito… Nessuno me l’ha scritto, ma era come se in ogni messaggio, in ogni mail ci fosse un non detto… Ma che t’è saltato in mente di scegliere venerdì 17?! ’A Sebastià, vabbè non essere superstiziosi, ma cosa ti costava scegliere un altro giorno?!

Mica avevo chissà quali opzioni: potevo scegliere fra giovedì e venerdì. Ho scelto quest’ultimo perché, magari, non tutti l’indomani dovevano alzarsi presto per andare a lavorare, ché al Baffo della Gioconda avremmo fatto tardi. Dunque meglio venerdì. 17. Ma, appunto, io non sono superstizioso e venerdì 17 non mi fa né caldo né freddo. E poi è un pregiudizio solo italiano, fuori dai nostri confini il giorno da evitare è venerdì 13 e nell’era della “realizzazione” del villaggio globale, nell’epoca di internet, le superstizioni locali sono destinate a sparire, a essere soppiantate da quelle globali, a diventare segni identitari di sparute sette segrete antiglobalizzazione come i seguaci di Baal, gli adoratori di Massimo Ciancimino, gli adepti di Marco Pannella o i fan di Umberto Balsamo.
Se Halloween è riuscito a soppiantare persino la festa dei Morti, che dalle mie parti (Sicilia), prima dell’avvento delle televisione a colori, portavano i regali alle bambine e ai bambini (altro che Santa Claus e la Befana!), volete che stia lì a preoccuparmi di una stupida superstizione che serve a far soldi (allo Stato) col gioco del lotto?
Suvvia!
E poi, alzi la mano chi ha più di cinquant’anni e non ricorda Tranks God, it’s friday. Vabbè, io non sono credente, non mi è mai piaciuta la disco music e quel film non l’ho manco visto. Però  - direbbe  Guccini - "è venerdì, perdio!" È l’antipasto della Febbre del sabato sera. L’anticamera del fine settimana. Il preludio di Sex and drug and rock’n’roll. È il massimo della trasgressione.

In realtà, i segni premonitori del Venerdì Nero c’erano tutti. Occorreva saperli cogliere. Sarebbe bastato andare oltre le apparenze e non sottovalutare le coincidenze. Anche se quella domenica l’autobus non passava e alla metro ci sono dovuto andare a piedi.
Che c’entra la domenica? C’entra. Era domenica pomeriggio e avevo deciso di andare a trovare Riccardo, Gisella e Nicoletta, così ho attraversato quella discarica a cielo aperto che una tabella indica come «Parco Pettazzoni» per arrivare su via di Porta Furba e prendere il 409 fino all’Arco di Travertino. Però non avevo biglietti e il bar tabacchi di fronte alla fermata era chiuso, così m’è toccato dirigermi verso la fermata precedente, su via di Torpignattara, e provare in un altro bar tabacchi che, però, i biglietti li aveva terminati. A quello successivo, su via Rovetti, praticamente a due passi da casa – ma avevo percorso un paio di chilometri per arrivarci – ho trovato gli agognati «titoli di viaggio» e mi sono diretto alla fermata. Il tratto di via di Torpignattara tra la Casilina e via Rovetti era chiuso per feste natalizie, con le bancarelle in mezzo alla strada, le persone a fare compere e le luminarie viola a invogliare lo shopping. Per farla breve, era evidente che da lì il 409 non sarebbe passato e quindi sarebbe stato inutile aspettarlo su via di Torpignattara, ma dovevo tornare alla fermata di Porta Furba, dove prima c’era un sacco di gente in attesa.
Arrivo che non c’è più nessuno. Penso che l’autobus sia appena passato e mi dispongo psicologicamente all’attesa. Poi noto un cartello bianco affisso sotto la tabella gialla: «Fermata soppressa. Il servizio riprenderà dopo le ore 22». Ma come?! – dico fra me e me – Nel periodo in cui facevano i lavori il 409 che veniva dall’Acqua Bulicante deviava sulla Casilina, poi imboccava via Filerete, girava per via Aicardi e arrivava a Porta Furba. Non potevano far così anche ora? "Ma chi sono quegli intelligentoni che, all’Atac, organizzano le modifiche dei percorsi?!" Mi ritrovo a esclamare a voce alta. «Ha proprio ragione a definirli “intelligentoni”, me lo lasci dire: io all’Atac ci lavoro» mi fa eco una voce, alle mie spalle. Mi volto. La «voce» ha una faccia cordiale e un fisico asciutto da trentacinquenne infilato in una divisa da autista d’autobus. Facciamo la strada insieme e, come spesso capita fra sconosciuti, si finisce col discutere del tempo (sul calcio non potevo interloquire, non essendo tifoso di Roma o Lazio. Anzi: non essendo tifoso). Così vengo a sapere, strada facendo, che "è prevista una settimana di freddo intenso, con le temperature che, di notte, potrebbero arrivare anche a meno sei". Azz!
La cosa, a pensarci, non mi dispiace nemmeno, ché prima del meno sei c’è lo zero e – chissà – potrebbe anche nevicare e ci potrebbe scappare qualche scatto interessante. Male che vada, qualche scatto per documentare l’evento.
Incosciente. A cinque giorni dall’unica presentazione pubblica di  Porcilandia, mi metto a sperare che nevichi. Incosciente. Smidollato.
Senza contare che non ci voleva molto a capire che quello non era un semplice autista d’autobus, ma lo sciamano meteorologico dell’azienda dei trasporti che, per ripagarmi del mio senso civico (quando mai s’è visto uno col biglietto su una tratta di tre fermate fuori dalle rotte dei controllori?!), mi avvisava che sarebbe stato il caso di rinviare la presentazione del libro verso giornate meno infauste. Però, non potendo dirmi: «Salve, sono lo sciamano dell’Atac, farebbe bene a spostare l’appuntamento di venerdì 17 a un giorno meno sfigato», s’è vestito da autista e m’ha regalato le previsioni meteorologiche. A buon intenditor…
Ma non ho inteso. Pensavo alle foto. Così come non ho colto nemmeno il successivo segno premonitore.
Mercoledì, fra le mail, ne ho trovato una di Daniela che mi annunciava una delle cene a sorpresa delle Irregolari proprio per Venerdì 17. Ero dispiaciuto, ché erano fra il pubblico potenziale del Baffo e, invece, era possibile che con le loro leccornie mi sottraessero altri potenziali “porcilandesi”.
Anche lì, mi sarebbe bastato riflettere sul fatto che, da quando sono venute a stare a «Torpigna», le due volte che sono stato alle loro cene è piovuto a dirotto. Ed erano giorni normali, di quelli con date anonime di cui non gliene frega niente a nessuno, non soggetti a «disgrazie» o «disastri», giorni sui quali non grava alcuna «maledizione». Figurarsi cosa sarebbe potuto succedere di Venerdì 17. Quando, senza bisogno di essere credenti, chiunque sa che il diluvio universale si scatenò «il 17 del secondo mese»: mica c’è bisogno di avere letto la Bibbia, basta cercare su Wikipedia.
Non occorreva essere Einstein o Nostradamus per sommare la profezia dello sciamano dell’Atac con le precedenti piogge “Irregolari” e prevedere l’inevitabile catastrofe del Venerdì 17. Invece niente. Nisba. Sordo come una campana e cieco come Simone Martini, il protagonista di Almost blue.
Che c’entra Almost blue? C’entra, eccome! Dovete sapere che quando, nel 2000, ho iniziato a bazzicare la rete, quello era il mio nick, con l’aggiunta dell’anno di nascita: almostblue58. Amo quella canzone. Specie la versione live a Tokio di Chet. E mi piaceva la descrizione, in apertura del romanzo che l’ha reso famoso, con cui Lucarelli ne raccontava la percezione da parte di Simone. Anche se quella è la versione in studio, quella di Let’s get lost. 
 
"Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po’ di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost blue.
A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, così chiusa e modulata da sembrare una lunga o. Al-most-blue… con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi.
Per questo mi piace Almost blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi."

Occhi chiusi, appunto. Solo uno con gli occhi chiusi poteva infilare nel suo romanzo i poliziotti protagonisti di quello di Lucarelli. Senza tenere conto che era Venerdì 17 anche quando è arrivato nelle sale cinematografiche il film di Alex Infascelli tratto dal romanzo: Venerdì 17 Novembre 2000. Anche di novembre, il mese dei defunti. Un cult della sfiga. Infatti il film è stato un mezzo flop, al botteghino, anche se ha collezionato un bel po’ di premi.
Con un simile precedente – altro che segni premonitori! – vai a sceglierti Venerdì 17??? Ebbene sì. Eppoi era dicembre, mica novembre. Sebbene i due mesi siano pericolosamente confinanti. Ma, appunto, non ho pregiudizi e, dunque, non ho nulla da temere.
Da quando Sua Innocenza è trapassato e lei è rimasta disoccupata, Vera Storia mi si è appiccicata come un francobollo su una cartolina. Dice che, per redimersi, vuole diventare la Vera Storia di Sebastiano Gulisano. Le ho spiegato che non mi serve una biografa, ché con la scrittura me la cavo discretamente, ma non c’è stato verso di scollarmela di dosso. Peggio dell’edera col palo della luce davanti a casa di Emiliano e Antonella. Con la differenza che né i francobolli né l’edera stanno li a rinfacciarti nulla: Ti sei divertito a fare nevicare a Roma dopo 25 anni, nel tuo romanzetto? Ti sei sentito profetico quando, venerdì 12 febbraio, è nevicato davvero? Pensavi di essertela cavata, eh?! Be’, beccati la neve a Roma venerdì 17 dicembre, così impari!
Perfida.

A me le superstizioni fanno un baffo, mi scivolano addosso come gocce di pioggia su un’incerata; gli vado incontro col sorriso beffardo e le braccia aperte al “nemico” come la giovane manifestante immortalata il 14 dicembre di fronte a un celerino incazzato e pronto a manganellarla. O come lo studente cinese davanti ai carrarmati a Tian An Men. E le “piglio” di santa ragione. Come quella volta che il motore della 127 decise di spirare sull’A1, poco prima del casello di Chiusi-Chianciano. Gianfranco e Riccardo, quando seppero, stettero a sghignazzare e a sfottermi ferocemente, per settimane.
Qualche era geologica fa, in una delle redazioni che ho frequentato, c’era un nome che non si poteva pronunciare. I superstiziosi, quando proprio dovevano nominarlo, lo chiamavano «L’Innominabile». Non era parente dell’Innominato del Manzoni, né apparteneva alla stessa categoria di persone. Era un collega, anzi un amico. Aveva trovato posto in un quotidiano nazionale dopo che un neoassunto era morto in seguito a un tumore fulminante. Dicevano. E si toccavano scaramanticamente. Se ne raccontavano anche altre, ma questa le oscurava tutte. Ricordo, però, che – coincidenze, solo coincidenze – quando telefonava in redazione c’era qualche quadro che si stancava di stare appeso alla parete, piegandosi alla legge di Newton. Ricordo anche quella volta che venne a trovarci, in redazione, e ci fu il black out. Solo da noi. Altrove la luce c’era. Solo da noi mancava. Era giorno di chiusura, nel senso che il giornale – un mensile – doveva andare in tipografia. Ma i materiali erano tutti nei computer. E senza energia elettrica erano diventati inviolabili.
Ricordo anche quella volta che, con Gianfranco, pubblicammo per la prima volta un’inchiesta su un settimanale nazionale. Per un errore redazionale, le firme diventarono tre. La terza era la sua, dell’Innominabile. Beccammo due querele. Il giorno dell’udienza preliminare arrivammo a Roma, da Catania, di prima mattina e, prima di prendere la coincidenza che ci avrebbe portato in tempo nella città in cui aveva sede il tribunale competente a giudicare i nostri “reati”, comprammo un settimanale nazionale, ché c’era da dimostrare un dettaglio legato alla data d’uscita in edicola dei settimanali. Durante il viaggio ci mettemmo a sfogliarlo e a leggere qualche articolo. Finché non arrivammo alle pagine di scienze. C’era un pezzo sul ritorno del colera. Firmato dall’Innominabile. Gianfranco ebbe un sussulto. Io ridevo. Alla fine, a malincuore, acconsentii a disfarci della pubblicazione, che lasciammo sul sedile del treno regionale; all’arrivo comprammo un altro settimanale da esibire al magistrato. Manco a dirlo, ci rinviarono a giudizio. Me e Gianfranco, ché L’Innominabile aveva immediatamente scritto al giornale per segnalare l’errore e all’udienza produsse la copia della rivista in cui veniva riportata la rettifica.
Il giorno appresso, sul Messaggero, leggemmo una notizia che ci lasciò basiti: quel treno regionale era deragliato lungo la via del ritorno. Né vittime, né feriti, per fortuna. Abbiamo rischiato di provocare una strage? Ma no! Davvero credete a ’ste cose?! Lo sanno tutti quanto siano obsoleti treni e rete ferroviaria. Mica c’entra l’articolo sul ritorno del colera scritto dall’Innominabile.
Io, infatti, non ci credo. Così, anni dopo, quando alla Festa dell’Unità di Modena trovai un Suo libro (“Suo” di Lui, sì) che m’interessava, non esitai nemmeno un attimo a comprarlo. Coincidenza volle che, sull’A1, mentre tornavamo a Roma, poco prima dello svincolo di Chiusi-Chianciano la fedele 127 decise di fondere il motore, dopo dieci anni di onorato servizio. Quando arrivò il carro attrezzi, il meccanico fu così gentile da prenderci a bordo, la mia compagna e me. C’era da decidere dove farci lasciare: lei voleva andare in stazione (era domenica sera e c’era sciopero dei treni), io preferivo l’albergo proprio all’uscita dello svincolo. Passò la mia opzione. Non intendevo correre il rischio di restare in una sperduta stazioncina appenninica, ché il tipo ce ne aveva proposta una che stava lungo il suo percorso, una dove fermavano solo i treni locali, che di domenica sono ridotti e, in più, c’era lo sciopero. E poi avevo il “piano di riserva”. Gabriele era andato a Parma, a vedere Parma-Lazio. Gli telefonai dall’hotel, lo ragguagliai sinteticamente della disavventura e gli chiesi se, tornando, potesse passare a recuperarci. Bien, siamo salvi.
Poco prima di mezzanotte squillò il telefono in camera. Una persona chiedeva di me. Al telefono. E chi poteva chiedere di me, se nessuno sapeva che stavo in quell’albergo? Era Gabriele. Gli era rimasto il numero sul cellulare, fra le telefonate in arrivo. Che fortuna! Chiamava per avvertirmi che non sarebbe potuto passare quella sera, ma l’indomani mattina. Aveva fuso il motore. Anche lui. La macchina nuova del padre. Nuova. Aveva fuso il motore.
L’indomani, in redazione, si discuteva di disavventure e coincidenze (due motori fusi e una delle due macchine era nuova!), quando, candidamente confessai il mio ultimo acquisto cartaceo. Noooooooo!!! – gridò Gianfranco – Ma tu sei pazzo! Te le vai proprio a cercare! E, non contento, coinvolgi altri nella tua follia!!! E giù a ridere. A sputtanarmi con altri amici e colleghi ai quali era nota la nomea dell’Innominabile e anche con coloro che nulla sapevano, ma che furono lestamente edotti, con dovizia di dettagli. Vidi la mia autorevolezza di vice caposervizio interni evaporare come l’acqua del radiatore della 127 prima di esalare l’ultimo sferragliamento.
Lauretta, che in passato ci aveva sempre guardati con la faccia seria e l’espressione di rimprovero, ogni qual volta balenava qualche avvisaglia di superstizione, quella volta sbiancò: Il libro era quello così e cosà? Non citò l’autore né il titolo, cercò di farmi capire limitandosi all’argomento, cruento. Assai cruento. L’aveva acquistato anche lei. Ed era rimasto sulla nostra macchina dove, dunque, c’erano ben due copie di quella pubblicazione. Non lo rivoglio, gettalo via, sussurrò in un fil di voce. Da quel giorno smise lo sguardo di rimprovero di fronte a certi argomenti.
Coincidenze, cara Lauretta, solo coincidenze. Spero che a distanza di così tanti anni te ne sia convinta anche tu. Io ne sono certo. Infatti l’unica “presentazione” di Porcilandia è stata Venerdì 17. È nevicato. È piovuto a dirotto fino a notte inoltrata. Le strade erano ghiacciate e il traffico romano impazzito. Ed eravamo così pochi che ricordo tutte le eroiche e gli eroici partecipanti che hanno osato sfidare la bufera e la “maledizione” pur di esserci: Claudio (che “presentava” il mio libro); Marcello, Lorenza e Monica (compagna del Baffo della Gioconda); Riccardo, Gisella e Nicoletta (amici siciliani che vivono anche loro a Roma); Francesco, Silvia e Veronica (amici “nuovomondisti”); Annapaola e Lavinia (amiche e colleghe con le quali, fra l’altro, ho condiviso esperienze lavorative e la sessione d’esami per “diventare” giornalisti). Poi c’erano Felice (insegnante precario, amico di Gisella) e Daniela (collega che conosco da poco tempo). E, last but not least, Luigina, con la quale convivo da ormai sedici anni (anticamera di diciassette).
Una serata fra amici. Una serata con persone che mi vogliono bene. E che sono ricambiate. Però sono stato un pessimo “padrone di casa” e me ne scuso: ero l’elemento di congiunzione tra i presenti ma non vi ho presentati. Ho visto, comunque, che malgrado il mio stare con la testa fra le nuvole fino a rasentare la maleducazione, vi siete mischiati come se vi conosceste da sempre.
Grazie. Mi avete regalato una bella serata. Venerdì 17 dicembre 2010!
Chet Baker - Almost blue


Grazie Seba, leggerti è sempre un piacere, è come se ci fossi stato, venerdì 17 dicembre 2010. Ma la prossima non vorrò assolutamente mancare, se la data sarà meno coincidente!

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