"Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po’ di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost blue.
A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, così chiusa e modulata da sembrare una lunga o. Al-most-blue… con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi.
Per questo mi piace Almost blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi."
Occhi chiusi, appunto. Solo uno con gli occhi chiusi poteva infilare nel suo romanzo i poliziotti protagonisti di quello di Lucarelli. Senza tenere conto che era Venerdì 17 anche quando è arrivato nelle sale cinematografiche il film di Alex Infascelli tratto dal romanzo: Venerdì 17 Novembre 2000. Anche di novembre, il mese dei defunti. Un cult della sfiga. Infatti il film è stato un mezzo flop, al botteghino, anche se ha collezionato un bel po’ di premi.
Con un simile precedente – altro che segni premonitori! – vai a sceglierti Venerdì 17??? Ebbene sì. Eppoi era dicembre, mica novembre. Sebbene i due mesi siano pericolosamente confinanti. Ma, appunto, non ho pregiudizi e, dunque, non ho nulla da temere.
Da quando Sua Innocenza è trapassato e lei è rimasta disoccupata, Vera Storia mi si è appiccicata come un francobollo su una cartolina. Dice che, per redimersi, vuole diventare la Vera Storia di Sebastiano Gulisano. Le ho spiegato che non mi serve una biografa, ché con la scrittura me la cavo discretamente, ma non c’è stato verso di scollarmela di dosso. Peggio dell’edera col palo della luce davanti a casa di Emiliano e Antonella. Con la differenza che né i francobolli né l’edera stanno li a rinfacciarti nulla: Ti sei divertito a fare nevicare a Roma dopo 25 anni, nel tuo romanzetto? Ti sei sentito profetico quando, venerdì 12 febbraio, è nevicato davvero? Pensavi di essertela cavata, eh?! Be’, beccati la neve a Roma venerdì 17 dicembre, così impari!
Perfida.
A me le superstizioni fanno un baffo, mi scivolano addosso come gocce di pioggia su un’incerata; gli vado incontro col sorriso beffardo e le braccia aperte al “nemico” come la giovane manifestante immortalata il 14 dicembre di fronte a un celerino incazzato e pronto a manganellarla. O come lo studente cinese davanti ai carrarmati a Tian An Men. E le “piglio” di santa ragione. Come quella volta che il motore della 127 decise di spirare sull’A1, poco prima del casello di Chiusi-Chianciano. Gianfranco e Riccardo, quando seppero, stettero a sghignazzare e a sfottermi ferocemente, per settimane.
Qualche era geologica fa, in una delle redazioni che ho frequentato, c’era un nome che non si poteva pronunciare. I superstiziosi, quando proprio dovevano nominarlo, lo chiamavano «L’Innominabile». Non era parente dell’Innominato del Manzoni, né apparteneva alla stessa categoria di persone. Era un collega, anzi un amico. Aveva trovato posto in un quotidiano nazionale dopo che un neoassunto era morto in seguito a un tumore fulminante. Dicevano. E si toccavano scaramanticamente. Se ne raccontavano anche altre, ma questa le oscurava tutte. Ricordo, però, che – coincidenze, solo coincidenze – quando telefonava in redazione c’era qualche quadro che si stancava di stare appeso alla parete, piegandosi alla legge di Newton. Ricordo anche quella volta che venne a trovarci, in redazione, e ci fu il black out. Solo da noi. Altrove la luce c’era. Solo da noi mancava. Era giorno di chiusura, nel senso che il giornale – un mensile – doveva andare in tipografia. Ma i materiali erano tutti nei computer. E senza energia elettrica erano diventati inviolabili.
Ricordo anche quella volta che, con Gianfranco, pubblicammo per la prima volta un’inchiesta su un settimanale nazionale. Per un errore redazionale, le firme diventarono tre. La terza era la sua, dell’Innominabile. Beccammo due querele. Il giorno dell’udienza preliminare arrivammo a Roma, da Catania, di prima mattina e, prima di prendere la coincidenza che ci avrebbe portato in tempo nella città in cui aveva sede il tribunale competente a giudicare i nostri “reati”, comprammo un settimanale nazionale, ché c’era da dimostrare un dettaglio legato alla data d’uscita in edicola dei settimanali. Durante il viaggio ci mettemmo a sfogliarlo e a leggere qualche articolo. Finché non arrivammo alle pagine di scienze. C’era un pezzo sul ritorno del colera. Firmato dall’Innominabile. Gianfranco ebbe un sussulto. Io ridevo. Alla fine, a malincuore, acconsentii a disfarci della pubblicazione, che lasciammo sul sedile del treno regionale; all’arrivo comprammo un altro settimanale da esibire al magistrato. Manco a dirlo, ci rinviarono a giudizio. Me e Gianfranco, ché L’Innominabile aveva immediatamente scritto al giornale per segnalare l’errore e all’udienza produsse la copia della rivista in cui veniva riportata la rettifica.
Il giorno appresso, sul Messaggero, leggemmo una notizia che ci lasciò basiti: quel treno regionale era deragliato lungo la via del ritorno. Né vittime, né feriti, per fortuna. Abbiamo rischiato di provocare una strage? Ma no! Davvero credete a ’ste cose?! Lo sanno tutti quanto siano obsoleti treni e rete ferroviaria. Mica c’entra l’articolo sul ritorno del colera scritto dall’Innominabile.
Io, infatti, non ci credo. Così, anni dopo, quando alla Festa dell’Unità di Modena trovai un Suo libro (“Suo” di Lui, sì) che m’interessava, non esitai nemmeno un attimo a comprarlo. Coincidenza volle che, sull’A1, mentre tornavamo a Roma, poco prima dello svincolo di Chiusi-Chianciano la fedele 127 decise di fondere il motore, dopo dieci anni di onorato servizio. Quando arrivò il carro attrezzi, il meccanico fu così gentile da prenderci a bordo, la mia compagna e me. C’era da decidere dove farci lasciare: lei voleva andare in stazione (era domenica sera e c’era sciopero dei treni), io preferivo l’albergo proprio all’uscita dello svincolo. Passò la mia opzione. Non intendevo correre il rischio di restare in una sperduta stazioncina appenninica, ché il tipo ce ne aveva proposta una che stava lungo il suo percorso, una dove fermavano solo i treni locali, che di domenica sono ridotti e, in più, c’era lo sciopero. E poi avevo il “piano di riserva”. Gabriele era andato a Parma, a vedere Parma-Lazio. Gli telefonai dall’hotel, lo ragguagliai sinteticamente della disavventura e gli chiesi se, tornando, potesse passare a recuperarci. Bien, siamo salvi.
Poco prima di mezzanotte squillò il telefono in camera. Una persona chiedeva di me. Al telefono. E chi poteva chiedere di me, se nessuno sapeva che stavo in quell’albergo? Era Gabriele. Gli era rimasto il numero sul cellulare, fra le telefonate in arrivo. Che fortuna! Chiamava per avvertirmi che non sarebbe potuto passare quella sera, ma l’indomani mattina. Aveva fuso il motore. Anche lui. La macchina nuova del padre. Nuova. Aveva fuso il motore.
L’indomani, in redazione, si discuteva di disavventure e coincidenze (due motori fusi e una delle due macchine era nuova!), quando, candidamente confessai il mio ultimo acquisto cartaceo. Noooooooo!!! – gridò Gianfranco – Ma tu sei pazzo! Te le vai proprio a cercare! E, non contento, coinvolgi altri nella tua follia!!! E giù a ridere. A sputtanarmi con altri amici e colleghi ai quali era nota la nomea dell’Innominabile e anche con coloro che nulla sapevano, ma che furono lestamente edotti, con dovizia di dettagli. Vidi la mia autorevolezza di vice caposervizio interni evaporare come l’acqua del radiatore della 127 prima di esalare l’ultimo sferragliamento.
Lauretta, che in passato ci aveva sempre guardati con la faccia seria e l’espressione di rimprovero, ogni qual volta balenava qualche avvisaglia di superstizione, quella volta sbiancò: Il libro era quello così e cosà? Non citò l’autore né il titolo, cercò di farmi capire limitandosi all’argomento, cruento. Assai cruento. L’aveva acquistato anche lei. Ed era rimasto sulla nostra macchina dove, dunque, c’erano ben due copie di quella pubblicazione. Non lo rivoglio, gettalo via, sussurrò in un fil di voce. Da quel giorno smise lo sguardo di rimprovero di fronte a certi argomenti.
Coincidenze, cara Lauretta, solo coincidenze. Spero che a distanza di così tanti anni te ne sia convinta anche tu. Io ne sono certo. Infatti l’unica “presentazione” di Porcilandia è stata Venerdì 17. È nevicato. È piovuto a dirotto fino a notte inoltrata. Le strade erano ghiacciate e il traffico romano impazzito. Ed eravamo così pochi che ricordo tutte le eroiche e gli eroici partecipanti che hanno osato sfidare la bufera e la “maledizione” pur di esserci: Claudio (che “presentava” il mio libro); Marcello, Lorenza e Monica (compagna del Baffo della Gioconda); Riccardo, Gisella e Nicoletta (amici siciliani che vivono anche loro a Roma); Francesco, Silvia e Veronica (amici “nuovomondisti”); Annapaola e Lavinia (amiche e colleghe con le quali, fra l’altro, ho condiviso esperienze lavorative e la sessione d’esami per “diventare” giornalisti). Poi c’erano Felice (insegnante precario, amico di Gisella) e Daniela (collega che conosco da poco tempo). E, last but not least, Luigina, con la quale convivo da ormai sedici anni (anticamera di diciassette).
Una serata fra amici. Una serata con persone che mi vogliono bene. E che sono ricambiate. Però sono stato un pessimo “padrone di casa” e me ne scuso: ero l’elemento di congiunzione tra i presenti ma non vi ho presentati. Ho visto, comunque, che malgrado il mio stare con la testa fra le nuvole fino a rasentare la maleducazione, vi siete mischiati come se vi conosceste da sempre.
Grazie. Mi avete regalato una bella serata. Venerdì 17 dicembre 2010!