(Sant'Agata di Militello, 18 febbraio 1933 – Milano, 21 gennaio 2012)
Vincenzo Consolo con Sciascia e Bufalino |
Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all'interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.
(Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, 1988)
La narrativa di Vincenzo Consolo presenta un originale rapporto tra memoria storica e ricerca linguistica. Egli è infatti attento alle più varie possibilità di linguaggio, e questo lo conduce a una appassionata interrogazione del passato.
La sua ricerca riguarda il mondo della Sicilia: il suo passato e il suo presente, la sua bellezza affascinante e il suo disfacimento, i suoi odori forti, la sua natura seducente portano questa contraddizione all'estremo, le danno una singolare capacità conoscitiva.
Io ho apprezzato la sua scrittura in Retablo e nei racconti Le pietre di Pantalica, opere che conservo nelle edizioni originali del 1987 e 1988.
Voglio ricordarlo con questa intervista-racconto di Oreste Pivetta, pubblicato su l'Unità il 23 dicembre 2009
Il razzismo di Milano spaventa Consolo, meglio la Sicilia, approdo per popoli diversi
Nessun addio ancora e Vincenzo Consolo, tra qualche giorno, tornerà a Milano, "patria immaginaria" da quarant’anni, da una notte di San Silvestro, scendendo dal treno la mattina dopo, alla Stazione Centrale: primo gennaio 1968. A Sant’Agata di Militello, il paese in provincia di Messina dove è nato, ieri splendeva il sole. Immigrato, anche se nella valigia teneva una laurea, un romanzo già pubblicato, l’amicizia di tanti intellettuali. Non è la neve a tener lontano da Milano Vincenzo Consolo, ma è la paura che quella patria immaginaria che è ormai nella memoria poco alla volta si sgretoli. C’è una voce particolare del degrado: il razzismo di Milano spaventa Consolo, che ricorda quando la città era accoglienza, solidarietà, era ancora una comunità. Lo scrittore parla della Sicilia e delle sue tragedie, ma cita in fila Bossi, Calderoli, Borghezio e i loro slogan e infine Berlusconi, complici di una malattia nefasta. Dice che la Sicilia soffre di infiniti mali, ma almeno è libera dal razzismo, dalla xenofobia, perché è sempre stata un approdo per popoli diversi, ricorda i re normanni che parlavano arabo e ricorda di un viaggiatore arabo, che, partito da Gerusalemme, riattraversando la Sicilia normanna contò trecento moschee, accanto alle sinagoghe, accanto alle chiese cristiane di rito ortodosso e di rito latino. "Mi capitò a Marsiglia, nel 1978 - ricorda - di partecipare a un convegno sull’immigrazione, con Mitterand, ancora solo segretario del partito socialista francese. Raccontai della presenza maghrebina a Mazara del Vallo. I maghrebini sono tornati. Hanno occupato di nuovo le case che furono dei loro antenati nel quartiere che è diventato la casbah. Così eravamo e così siamo rimasti, abituati e aperti a presenze straniere. Non sento razzismo in Sicilia. Ci resta molto di cattivo. Ci resta la mafia, ma la mafia, come diceva Sciascia, è una palma che sale al nord. Le palme in Sicilia magari muoiono essicate dal punteruolo rosso, l’insetto che le divora".
Vincenzo Consolo fa il pendolare tra Milano e la Sicilia. La prima volta, nel 1952, si fermò per studiare alla Cattolica (almeno fino al servizio militare). Poi si laureò a Messina. Studiava legge e leggeva romanzi acquistandoli a rate dalla Einaudi. Viveva nella pensione della signorina Colombo, proprio muro contro muro con la basilica di S.Ambrogio. Attraversava la chiesa per raggiungere più alla svelta le aule dell’università e una mattina vide sull’altare una donna molto bella e un uomo elegantissimo in frac. Qualcuno gli disse che erano Franca Rame e Dario Fo e che quello era il loro matrimonio. All’università frequentava Ciriaco De Mita e Gerardo Bianco. Dopo la laurea tornò in Sicilia per insegnare in un istituto agrario. Poi si disse che quella scuola era una beffa: preparava quei ragazzi a diventare emigranti. E si chiese se non dovesse tornare anche lui emigrante. "Chiesi consiglio a Lucio Piccolo, cugino di Tomasi di Lampedusa, e a Leonardo Sciascia: l’aristocratico poeta mi suggerì di tenermi lontano dai grandi centri culturali, così nell’isolamento avrei ottenuto maggiore visibilità, Sciascia mi confidò che se non avesse avuto famiglia sarebbe partito pure lui. Lo ascoltai. Partii la seconda volta per Milano. Quarant’anni a Milano, che per me, malgrado il tramonto d’oggi, è stata la città degli illuministi, di Manzoni, di una grande siciliano come Giovanni Verga, di Elio Vittorini, che avevo conosciuto quando pubblicai il mio primo libro… La città di Salvatore Quasimodo, del lavoro, degli operai. Soprattutto con un’anima che accoglieva tutti".
CAMBIO ANTROPOLOGICO
Un’anima tormentata: in fondo lì comincia la strategia della tensione, in piazza Fontana: "Tenevo una rubrica per l’Ora di Palermo. Dopo la strage, mi affidarono un’intervista a Licia Pinelli. Giuseppe era di origine siciliana. Portai alcuni doni alle bambine e tra questi un angelo, lavorato dagli artigiani del mio paese". Che cosa ha corrotto Milano? "Come scriveva Pasolini, è avvenuta una mutazione antropologica. La fine del lavoro operaio ha cancellato i luoghi e i riferimenti della formazione culturale". Non solo Bossi e Berlusconi. Loro sono soltanto gli imprenditori politici che hanno colto il segno della deriva. Resta l’individualismo che genera paura. White Christmas, come succede a Coccaglio, provincia di Brescia. Nel segno della mistificazione di una storia, della tradizione tanto rivendicata, della fede. Quando anche l’arcivescovo diventa un bersaglio. Vincenzo Consolo non lascerà Milano. Altre volte l’aveva detto. Un impulso, ma il legame è forte: "Chissà, forse fra un anno, quando avrò sistemato alcuni lavori". Immaginiamo che il sindaco Moratti decida di premiare Vincenzo Consolo con l’Ambrogino d’oro. In fondo è un milanese dell’immigrazione che ha dato il suo cuore alla cultura: "Dovrei rimanere. Nella speranza di rivedere quella città che mi è sparita sotto gli occhi".
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