10 ottobre 2010

Mafia, appalti e stragi. Un depistaggio lungo vent’anni, di Sebastiano Gulisano

Lo scorso 5 ottobre, il generale Mario Mori, in un colloquio col giornalista-senatore Lino Jannuzzi (che fungeva più da “spalla” che da intervistatore) ha raccontato la sua versione di quello che definisce «il processo a me, ai miei colleghi, al Ros, ai carabinieri» e il cui inizio fa risalire al «16 febbraio del 1991, vent’anni fa, quando consegnammo alla procura di Palermo il rapporto dell’inchiesta detta “mafia e appalti”…». La chiacchierata fra i due amici, che ricalca un articolo pieno di inesattezze pubblicato in rete da Jannuzzi un anno fa, è un vero e proprio distillato di disinformazione e allusioni sulle stragi del ’92 e su vicende ad esse connesse come, appunto, l’ormai “mitico” rapporto di 890 pagine consegnato dal capitano Giuseppe De Donno al procuratore aggiunto Giovanni Falcone, il 20 febbraio del 1991, e da questi consegnato a sua volta al procuratore capo, Pietro Giammanco, che lo chiuse in cassaforte. «Una leggenda», commentano Jannuzzi e Mori, riferendosi a quel rapporto e a quell’inchiesta. Vero, verissimo. Ormai la leggenda ha prevalso sulla storia e, come ogni leggenda, è intrisa di verità, mezze verità e menzogne scecherate così bene da essersene smarriti i confini. Confini non agevoli da ridefinire con una ricostruzione giornalistica per quanto documentata, approfondita e articolata. Però alcuni punti fermi si possono agevolmente fissare, proprio confutando le parole di Mori riportate da Jannuzzi, a proposito dell'inchiesta su mafia e appalti.
Prima, comunque, necessita una premessa.

L’inchiesta su mafia e appalti prende il via nell’88, in seguito a una “soffiata” ricevuta dai carabinieri che indagano sull’omicidio di un allevatore in un comune delle Madonie. Le successive indagini svelano che Cosa Nostra non ha più un atteggiamento parassitario (imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali) ma, come spiega Giovanni Falcone, durante un convegno organizzato dall’Alto commissario antimafia, nella primavera del 1990, «indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici».
Un passo dopo l’altro, un’intercettazione dopo l’altra, si arriva al 20 gennaio del 1991, quando De Donno consegna a Falcone il rapporto citato, ma il magistrato è ormai prossimo a trasferirsi al ministero di via Arenula e, con gli altri colleghi del pool antimafia, è impegnato in una corsa contro il tempo per chiudere l’istruttoria sugli omicidi politici (Mattarella, La Torre, Reina) prima che scadano i termini imposti dalla legge, nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale. Per tale motivo il monumentale documento finisce in cassaforte, ché anche i sostituti Pignatone e Lo Forte, assegnatari del fascicolo insieme con Falcone, sono impegnati nella medesima istruttoria, depositata il 12 marzo 1991. L’inchiesta è così complessa e la mole degli atti talmente monumentale che, nel mese di maggio, il procuratore Giammanco decide di affiancare a Pignatone e Lo Forte altri 6 sostituti (Carrara, De Francisci, Morvillo, Natoli, Scarpinato e Sciacchitano) e il procuratore aggiunto Spallitta.
I Ros dell’allora tenente colonnello Mori e del capitano De Donno individuano 45 persone – mafiosi, noti imprenditori nazionali, progettisti, faccendieri e un paio di politici palermitani – a carico dei quali ipotizzano i reati di associazione mafiosa (per 24 di loro) e di associazione per delinquere finalizzate alla spartizione degli appalti pubblici (21). L’organizzazione sarebbe capeggiata da Angelo Siino, un massone mafioso legato ai Brusca di S. Giuseppe Jato, arrestato il 9 luglio ’91 con altre quattro persone: il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea in Sicilia occidentale della Rizzani De Eccher di Udine, e gli «imprenditori» Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, tutti accusati di mafia. Ai cinque, all’inizio del ’92, si aggiungeranno Vito Buscemi e Rosario Cascio. Il 13 luglio del 1992, ritenendo di non avere elementi sufficienti per il giudizio, la Procura deposita la richiesta di archiviazione di 21 indagati nell’inchiesta scaturita dal rapporto del Ros e il 22 la presenta al Gip, che il 14 agosto firma il decreto di archiviazione. Resta aperto il filone Sirap, una società della Regione siciliana.
Secondo i magistrati della Procura di Palermo, che lo scrivono in una relazione al Csm, alla fine del ’92, l’indagine del Ros ha prodotto «un salto di qualità nelle conoscenze sino ad allora acquisite sui rapporti tra Cosa Nostra e il mondo imprenditoriale. Ed in effetti emergeva che l’associazione mafiosa non si limitava più a svolgere un ruolo di sfruttamento meramente parassitario delle attività economiche-imprenditoriali, concretatesi nell’imposizione di tangenti, di subappalti, di imposizione della manodopera, ma mirava a realizzare un controllo integrale e un pesante condizionamento interno del mondo imprenditoriale e del settore dei lavori pubblici in Sicilia».
Il 26 luglio del ’91, dopo i primi arresti, la Procura ha delegato i Ros ad approfondire il filone d’indagine sulla Sirap, società pubblica incaricata di gestire la realizzazione di una serie di aree artigianali in Sicilia, per un ammontare complessivo di mille miliardi di lire. Così facendo, la Procura ha messo in campo una strategia articolata in tre punti: 1) l’arresto degli elementi più pericolosi dell’organizzazione, sui quali c’erano elementi sufficienti per ottenere il rinvio a giudizio e la condanna; 2) acquisire altri elementi su soggetti già individuati dai Ros; 3) individuare i referenti politici e amministrativi dei boss.
In realtà, non tutto filava liscio, visto che a metà giugno del 1991, la Sicilia, il quotidiano di Catania, avviava una campagna contro la Procura, accusata di tenere «nel cassetto» il rapporto dei Ros, pubblicando anche stralci delle intercettazioni «insabbiate». Campagna che presto tracimerà sulle pagine di tanti quotidiani e periodici. Insomma: il «processo» non era ai Ros, come sostiene il generale nella chiacchierata con Jannuzzi, ma ai magistrati.

«L’inchiesta mafia e appalti è diventata una leggenda.
“È vero, una leggenda. Era solo il primo mattone, ma era una novità assoluta, il capitano Giuseppe De Donno, il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che lo chiamava affettuosamente ‘Peppino’ e che era uno dei pochi investigatori che poteva permettersi di dargli del ‘tu’, e non si staccava mai da lui, che se lo portava appresso anche all’estero, in giro per il mondo, aveva fatto un ottimo lavoro e, avvalendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera, che lavorava in Sicilia per la ‘Rizzani De Eccher’, una grossa azienda del nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare tangentizio siciliano, la prima del genere e che anticipava di qualche anno la Tangentopoli nazionale”.
Sul momento, non se ne accorse nessuno.  
“Se ne accorse Giovanni Falcone, che ci fece persino lo spunto per un convegno, che concluse col famoso annuncio: ‘La mafia è entrata in borsa’… E con quell’annuncio iniziò la sua fine, perché se ne accorsero gli interessati, le imprese, i mafiosi e i politici”.
Ma non successe niente.  
“La procura di Palermo non ci dette nemmeno le deleghe per proseguire le indagini e delle 44 posizioni che avevamo individuato emise solo cinque ordini di arresto, ma consegnò agli avvocati degli arrestati tutto il malloppo, tutte le 890 pagine del rapporto, con i nomi e i cognomi di tutti i 44 indiziati”.»
Il rapporto dei Ros sarebbe, dunque, anche il frutto delle confidenze del geometra Li Pera al capitano De Donno. Così vuole la leggenda, non la storia. Giuseppe Li Pera è uno dei cinque arrestati del luglio ’91, quando finisce in manette anche Angelo Siino, anche lui confidente dell’ufficiale del Ros che, così si sarebbe “bruciato” ben due fonti. Un bel risultato, non c’è che dire. Ma andiamo con ordine. Dopo l’arresto, Li Pera viene interrogato due volte dai pm di Palermo, ma si rifiuta di rispondere. Il 17 febbraio 1992, dopo sette mesi di carcere e, soprattutto, dopo il deposito delle intercettazioni che lo inchiodano, invia ai magistrati una memoria in cui tenta una inutile quanto disperata difesa, dichiarandosi estraneo ai fatti contestati. Lo stesso fa il 5 marzo, durante un interrogatorio dei pm Lo Forte e Scarpinato al quale assiste anche De Donno.
5 marzo 1992: questa data è importante, ché alla fine dell’interrogatorio l’ufficiale si apparta coi due pm e, convinto che l’imputato sia condizionato dal suo avvocato, chiede ai magistrati di poterlo incontrare da solo per convincerlo a collaborare. Permesso accordato.
Il 9 marzo la Procura chiede il rinvio a giudizio di Li Pera, Siino e gli altri tre coindagati, per associazione mafiosa,
Il 30 aprile ai Ros di Palermo arriva una lettera anonima con la quale li si invita a «interrogare Li Pera» per scoprire «imbrogli» su alcuni appalti pubblici in provincia di Catania e a chiedere «informazioni al giudice Lima», al quale i Ros, il 3 maggio, trasmettono l’esposto anonimo e una nota esplicativa. Risulterà che l’anonimo era stato scritto dallo stesso Li Pera, che dal 13 al 15 giugno e il 27 agosto è interrogato in carcere dal pm etneo Felice Lima, come persona informata sui fatti, mentre il 20 luglio è il capitano De Donno, su delega del pm, a interrogarlo. Li Pera racconta in maniera meticolosa il funzionamento del sistema degli appalti siciliano e nazionale, tacendo su Cosa Nostra, che si intravede solo nell’espressione «forza di tipo diverso» delegata alla «risoluzione dei contrasti» tra imprese che non riesce a sbrogliare Filippo Salamone, imprenditore agrigentino delegato a sbrogliare le situazioni complicate. Il 14 ottobre 1992, il collaborante è interrogato per la prima volta in presenza di un avvocato, poiché indagato in seguito alle sue stesse rivelazioni.
Li Pera, fin dal primo interrogatorio (13 giugno) mette a verbale che i pm di Palermo non l’hanno mai voluto sentire: affermazione falsa e il capitano De Donno, che assiste il pm Lima, lo sa bene. Li Pera, inoltre, sostiene di non fidarsi della Procura del capoluogo, ché, secondo quanto riferitogli dal suo legale (successivamente arrestato e condannato per mafia), nell’estate del ’91 ci sarebbe stata una riunione fra pm e avvocati, in cui sarebbe stato deciso chi arrestare e chi no delle persone accusate dai Ros: lui stesso, Siino e gli altri tre finirono nell’elenco dei «sacrificabili». L’attendibilità dell’avvocato, si commenta da sé.
I pm di Palermo, della collaborazione di Li Pera, non sapranno nulla fino al 28 ottobre 1992, quando il procuratore di Catania e i suoi aggiunti invieranno nel capoluogo gli interrogatori di Li Pera, un rapporto di 843 pagine dei Ros di Palermo redatto dal capitano De Donno e datato 1 ottobre 1992, e una nota introduttiva di 8 pagine firmata dai capi dell’ufficio etneo. Dopo avere chiuso in un cassetto la richiesta di custodia cautelare avanzata da Felice Lima nei confronti dei vertici della Regione siciliana, grandi imprenditori regionali e nazionali, professionisti e qualche boss: 22 in tutto. L’inchiesta era incentrata, fra l’altro, su alcuni appalti  catanesi della Sirap (gli stessi per i quali indagava Palermo). Lima, in realtà, aveva provato a contattare Paolo Borsellino (lo ha confermato al Csm la madre del magistrato ucciso) ma il tritolo lo ha tolto di mezzo prima che i due potessero incontrarsi.
Nello stesso periodo, il capitano De Donno indagava per conto dei pm antimafia di Palermo e per il pm Felice Lima di Catania, su fatti che a volte si sovrapponevano (Sirap) e consegnando corpose informative ai due diversi uffici inquirenti (a Palermo, il 5 settembre 1992), tanto che, scrivono i magistrati palermitani nella relazione al Csm, alla fine del ’92, gli allegati dell’informativa consegnata a Lima il primo ottobre erano costituiti «in massima parte da fotocopia di atti compiuti dalla Procura della Repubblica di Palermo».
Il 19 ottobre, a Palermo, inizia il processo a Li Pera, Siino e gli altri arrestati, ma i pm non sanno della collaborazione del geometra, che apprenderanno solo quando da Catania gli arriveranno i verbali di Li Pera (28 ottobre) e saranno costretti a cambiare completamente strategia accusatoria a processo avviato. Non solo. Siccome le dichiarazioni si incastrano alla perfezione col contenuto delle intercettazioni telefoniche alla base del primo rapporto dei Ros (quello consegnato a Falcone prima di trasferirsi a Roma), le 21 archiviazioni chieste dai pm il 13 luglio e disposte dal gip il 14 agosto, non ci sarebbero state. Questi sono i fatti. Così com’è un fatto che i Ros si sono tenuti per oltre due anni (dal ’90 alla fine del ’92) intercettazioni che coinvolgevano pesantemente uomini politici di primo piano (fra questi, Salvo Lima, ucciso il 12 marzo 1992) nella gestione illecita degli appalti pubblici. Con buona pace del generale Mori, di Jannuzzi e dei loro seguaci che continuano a diffondere leggende.
Allo stesso modo, è leggenda che Falcone, dopo avere letto il rapporto del febbraio 91, avrebbe pronunciato a un convegno la celebre frase sulla «mafia in Borsa» e sarebbe stato ucciso in conseguenza di ciò, ché quella frase risale all’88, a dopo che Gradini rilevò le imprese del conte Arturo Cassina poste sotto sequestro dall’Alto commissario per la lotta alla mafia.
È parimenti leggenda che la Procura non li delegò a proseguire l’inchiesta: i Ros hanno avuto le deleghe il 26 luglio del 1991 (Sirap) e, in conseguenza di ciò, c’è l’informativa del 5 settembre 1992.
L’inchiesta «insabbiata» dai magistrati di Palermo raggiunge il suo apice la notte tra il 25 e il 26 maggio del 1993, quando vengono eseguiti 25 arresti di boss, amministratori della Sirap, imprenditori d’alto rango e politici di livello nazionale, mentre alcune decine di esponenti politici ricevono degli avvisi di garanzia, per tre dei quali (Nicolosi, Mannino e Buttitta) si rende necessario chiedere alla Camera l’autorizzazione a procedere. Determinanti, a tal proposito, risultano le dichiarazioni di Giuseppe Li Pera che nel frattempo ha descritto senza reticenze anche il ruolo «regolatore» di Cosa Nostra nel sistema degli appalti.

Il resto dell’intervista meriterebbe analoga meticolosità, ma, come ho scritto all’inizio, la materia è troppo complessa per un articolo giornalistico. Ci vorrebbe un libro. E piuttosto corposo. Ritengo, però, che l’analisi dei fatti relativi alla vicenda mafia e appalti renda chiaro quanto sia attendibile il generale Mori (che, comunque, di tanto in tanto, dice anche cose vere).
Per qualificare Jannuzzi basta invece un suo editoriale che, quando Falcone si trasferì a Roma, scrisse sul Giornale di Napoli: «Cosa Nostra uno e due» s’intitolava, e si metteva in guardia dal possibile rischio rappresentato dal fatto che Falcone e Gianni De Gennaro potessero diventare, rispettivamente, capo della Dna e direttore della Dia:
«Se le candidature andranno a buon fine, si ricostruirà, al vertice del tribunale speciale e della superpolizia, la coppia che fu la massima, e la più autentica espressione […] del “professionismo dell’antimafia”. «È una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e per i maxiprocessi, ha approdato al più completo fallimento: sono Falcone e De Gennaro […] i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. «Ma non è questo il punto. Se i “politici” sono disposti ad affidare agli sconfitti di Palermo la gestione nazionale della più grave emergenza della nostra vita, è, almeno entro certi limiti, affare loro. Ma l’affare comincia a diventare pericoloso per tutti noi: da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due “Cosa Nostra”, quella che ha la Cupola a Palermo, e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto». Anni dopo, Jannuzzi si difenderà sostenendo che intendeva riferirsi solo a De Gennaro, ma il contenuto del suo scritto è inequivocabile.

***
Personalmente, ritengo che l’inchiesta su mafia e appalti e, più in generale, lo svelamento di Tangentopoli, siano fra le concause delle stragi del ’92-’93, non il movente delle prime due, come sostengono i Ros e i loro seguaci (falsando spesso e volentieri fatti e date), che additano come depistatori e complici di Riina chiunque sostenga altro.

Grazie a Sebastiano per la meticolosa ricostruzione di fatti che meriterebbero un'attenta riflessione da parte di tutti noi.

1 commento:

  1. Anonimo21.8.12

    Secondo "loro" siamo fuori dal tunnel!!!
    Ma i vari Monti, Passera, Fornero, tecnici e professori discorrendo, di cosa parlano? In quale paese vivono? Ostentano ottimismo: "Il peggio è passato", "Si vede la fine del tunnel", "La crisi economica è alle spalle"! Giurano che senza di "loro" sarebbe stato molto peggio: "Se fosse rimasto Berlusconi avremmo avuto uno spread oltre i 1.200 punti base"! E vogliono far credere agli italiani di aver salvato il Paese dall’ecatombe!

    Allora perché oggi stesso non chiedono l'ennesima fiducia al Parlamento per abbuonare ai cittadini italiani la seconda rata IMU? Perché non retribuiscono i lavoratori italiani con lo stesso stipendio dei lavoratori tedeschi? Perchè Montecitorio è chiuso per ferie! Perché mentono, sapendo di mentire! Perche anche “loro” sono già in campagna elettorale!

    I dati economici dipingono un'Italia ben diversa da quella che il governo Monti vorrebbe farci credere. La crisi gobale, che dura ormai da cinque anni, ha devastato il mercato del lavoro e il welfare del Belpaese. Secondo l'Eurostat, infatti, lavora soltanto un italiano su tre: su 60,8 milioni di persone solo 22,3 sono regolarmente impiegate. Entro l'anno prossimo, infatti, la disoccupazione arriverà quasi a quota 10%, mentre quella giovanile si aggira intorno al 30%. Percentuali da capogiro se vengono messe vicine alla crisi dell'industria e, in particolar modo, del comparto dell'auto. Da tempo, infatti, il pil italiano è in zona recessione. E ancora: a giugno il debito pubblico ha sfiorato la soglia di 2mila miliardi di euro (1.972,9 secondo le stime della Banca d'Italia). Per non toccare il tasto dolentissimo di “scuola”, “sanità” e “giustizia”!!! Ma intanto “loro” dicono di aver salvato la Patria. Per contro i “soliti noti” mettono mano al portafoglio e pagano i “loro” conti stretti in una morsa letale di tasse, imposte e balzelli introdotti dai “tecnici” per continuare a spremere i limoni già spremuti, lasciando da parte quelli pieni zeppi di succo, ma chiedendo alla Rai di "non fare usare più l'aggettivo 'furbi' nei servizi dei tg che descrivono la lotta contro l'evasione"! Dall'Imu ai rincari sulle bollete, dalle accise sulla benzina alle addizionali (regionali e comunali) sull'Irpef, il "Governo Salvatore della Patria" altro non ha saputo fare che andare sul sicuro, prendendo i soldi laddove era sicuro di trovarli: lavoratori e pensionati, continuando a bastonare chi stava già con le ossa rotte! Ma secondo “loro” - dall’alto di una vita super-agiata e garantita da retribuzioni che un operaio o un semplice impiegato non sarebbero in grado di raggiungere neppure se lavorassero ininterrottamente, giorno e notte, per 2.000 anni - siamo fuori dal tunnel!

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